Discussione: Oggi Avvenne
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Vecchio 23 settembre 10, 15:05   #13 (permalink)  Top
RuPa
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Originalmente inviato da max_c26acro Visualizza messaggio
1910

Il peruviano Jorge Chavez è il primo pilota ad attraversare le Alpi con un velivolo Bleriot XI (oggi è il centenario).
Partito da Briga (CH), sorvolò il Sempione in direzione di Domodossola in 44 minuti e 56 secondi, ma la struttura del velivolo già sofferente della forte turbolenza cedette e il pilota rimase gravemente ferito nello schianto.
Morì all'ospedale di Domodossola quattro giorni dopo, all'età di 23 anni.

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A questo propostito mi permetto di allegarvi l'articolo apparso martedì 22 sul "Corriere del Ticino"

L'uomo che per primo trasvolò le Alpi
A Briga, quel mattino di venerdì 23 settembre 1910, le condizioni per il volo erano perfette: cielo con poche nubi alte in dissoluzione, vento debole da ovest in Vallese e foehn moderato nella valle oltre il Sempione. E anche la pianificazione compiuta dal pilota era stata perfetta: decollo non appena conosciu­te le condizioni atmosferiche sul Sempione e all'arrivo a Domodossola. Ma a Jorge Antonio Chávez Dartnell, aviatore nato in Francia e noto con il nomignolo «Geo» (dal francese Georges), che gareggiava con i colori del Perù, origine della sua famiglia, ciò non bastava e vol­le andare di persona in automobile fino al passo per osservare le condizioni di visibilità e misurare il ven­to. Non voleva trovarsi a mal partito con i venti impetuosi e turbolenti che il lunedì precedente avevano fatto quasi schiantare il suo fragile monoplano Blériot XI contro le rocce, quando dovette desistere dal proseguire nella traversata a causa delle nubi scure che vedeva addensarsi nella valle verso l'Italia. Era rimasto praticamente il solo che potesse portare a termine la gara indetta dalla Società Italiana di Avia­zione insieme con la Commissione Nazionale per il Turismo Aereo del Touring Club Italiano con la deno­minazione «Circuito Aereo Inter­nazionale di Milano - Traversata delle Alpi» con una dotazione di 300.000 lire.

Chávez si era fatto confezionare indu­menti speciali per il volo, foderati con carta crespa all'interno e fuori con seta impermeabilizzata. Tra le due fodere vi erano vari strati di amianto. Nella cabi­na di pilotaggio vi era solo un leggero se­dile in legno e vimini, privo di cinture di sicurezza. La barra di comando termi­nava superiormente con un volantino. Il comando del motore (manetta) era dentro la cabina. Sopra, a sinistra, spic­cava il contagiri, mentre la bussola si tro­vava a destra e, sopra di essa la scatola delle mappe. Il pilota aveva la scatola del barografo appesa al collo con una cin­ghietta. In testa portava un casco di cuo­io di tipo motociclistico e indossava occhialoni e lunghi guanti foderati.

Quattro giorni di gloria
Alle ore 13.29 l'aereo decollò regolar­mente dalla pista erbosa e iniziò una len­ta salita a spirale per portarsi ad alme­no 2.000 metri prima di virare a sud ver­so il Sempione (2.200 m). Qui fu visto transitare 300 m più in alto dai giornali­sti che cercavano di precederlo in auto. Poi più nessuno ne riportò la posizione, finché, alle 14.10 fu avvistato mentre scendeva rapidamente sopra Domodossola, silenzioso, con l'elica che girava in folle. Alle 14.14, mentre stava per atter­rare vittorioso, a una quota stimata in circa 20 metri, le semiali del velivolo si distaccarono e si ripiegarono all'indie­tro. L'aereo cadde di prua, piantando in terra il motore e ribaltandosi. Chávez ri­mase ferito dagli spezzoni di legno e dal­le corde da pianoforte utilizzate per ir­robustire il traliccio della fusoliera, oltre che schiacciato dai rottami. Venne su­bito soccorso da due medici, stabilizzato e portato all'ospedale San Biagio, dove non si riprese e morì quattro giorni dopo.

La voce del protagonista
Ed ecco il racconto del volo, tratto dalle risposte di Geo Chávez alle domande del giornalista del Corriere della Sera Luigi Barzini, che lo intervistò in ospedale il giorno dopo l'incidente.
«... Quando cominciai a salire, c'era una quiete perfetta. Arrivai benissimo fino al passo del Sempione. Il giorno era così sereno, che potei vedere perfettamente l'albergo. Proseguii, dunque, con piena fiducia, entrando nella val­le del Krammbach. Mi abbassai un po' per proteggermi dal vento dell'est... Eb­bi appena alcune folate di vento. Temevo qualcosa di più serio dopo quello che avevo visto la mattina. La quiete mi accompagnò fino in quella valle alta che si vede dal villaggio del Sem­pione verso il Monscera... avevo deci­so di passare da lì. Conoscevo perfettamente la rotta. Avevo raggiunto due volte la cima del Pioltone e avevo im­parato a memoria tutti i valichi.
«... Credevo che la parte più difficile della traversata fosse stata fatta. Ma una prima raffica di vento mi colpì mentre passavo sulla strada, dove feci gli ultimi giri sulla valle prima di diri­germi verso Gondo... da più di mille metri, la vedevo come un nastro bianco ingarbugliato. Fino a quel momen­to avevo volato verso sud. Da lì mi diressi verso sud-est, ma, non appena mi trovai tra il Seehorn a sinistra e il Tschaggmathorn a destra, mi sentii im­provvisamente afferrato dal vento. Era­no dei veri colpi di martello, imprevisti, di qui, di là, di sopra, di sotto... un inferno... Facevo salti di cinquanta-sessanta metri...
«... È lì dove ho affaticato l'apparecchio. Sentivo che il vento mi trascinava, e mi sembrava che l'aeroplano se ne andas­se improvvisamente e mi scappasse di mano. Io muovevo gli equilibratori, cer­cavo di virare, di uscire da quei muli­nelli... Era una lotta tremenda e insi­stente...
... Non guardavo in basso... Non guardavo altro che quello che avevo davanti a me, pensando che a circa cinque chilometri di distanza c'era il valico del Monscera, alto (2.103 m, n.d.r.), ripi­do, e avevo il presentimento di non riu­scire a passare di là. I venti lo frusta­vano, vi penetravano. Alla mia sinistra si apriva la valle di Zwischbergen che porta a Gondo. È una gola stretta tra montagne tagliate a picco, rinchiuso tra il Seehorn e il Pioltone... L'ho vista passando sulla strada, e mi ci misi... Non potevo scegliere. Dovevo decider­mi tra continuare o atterrare tra le rocce...

«... A duemila metri, forse a duemila cento. Feci un giro intorno al Seehorn e poi penetrai nella gola. Tre minuti dopo, tre lunghi ed interminabili mi­nuti, ero alle spalle del Pioltone e dopo c'era la valle, un po' sotto le cime. Il vento soffiava abbastanza forte, era al­le mie spalle. Volavo velocemente, for­se a più di cento chilometri all'ora. Sen­tivo alcuni scossoni e le raffiche di ven­to mi sballottavano come una tavola in un mare in tempesta, ma i salti era­no minori...
«Così percorsi circa sette od otto chilo­metri fino al punto in cui la valle si al­larga. Distinsi allora, sotto ed alla mia sinistra, all'altro lato della valle, il vil­laggio di Varzo. Calcolo che mi trovavo a circa mille cinquecento metri al disopra. Le montagne dall'altro lato mi sembrarono più facili da sorvolare e mi diressi verso Varzo, riducendo appros­simativamente la mia altezza a cinque­cento metri, alternando il volo librato con alcune riprese del motore. E feci be­ne, perché trovai una zona più tranquilla.
«Dopo Varzo, volai sempre sul bordo sinistro. Vidi in lontananza la valle di Ossola. Era il traguardo. Vi arrivai in un istante. Passai su Domodossola, scendendo sempre di più. Distinsi la pi­sta di atterraggio, molta gente, una gran croce bianca sull'erba, il segnale di at­terraggio. Poi... poi... non so. Scendevo molto bene, scendevo regolarmente, un po' in volo librato e un po' con l'aiuto del motore per non essere trascinato dal vento che soffiava... Facevo un atter­raggio normale... Stavo quasi per toc­care terra, contento... Quindi non ri­cordo niente più. Non mi resi conto di quello che mi successe. Ci penso, ma non posso rendermene conto... Mi vedo ad alcuni metri dal suolo, nel mio apparecchio... e nient'altro».

Quando Geo Chávez fu ammesso a par­tecipare alla gara aveva soltanto 23 anni. Si era diplomato ingegnere elettrico e meccanico all'École Violet di Parigi e aveva ottenuto il brevetto di volo alla scuola dei fratelli Farman il 5 febbraio 1910.

Per comprendere quanto difficile fosse l'impresa compiuta dal giovane franco­peruviano basti contare il numero degli incidenti di volo occorsi nel 1909 e in par­ticolare a Louis Blériot, il quale, purtut­tavia, il 25 luglio di quell'anno, riuscì a vincere il ricco premio di mille sterline messo in palio dal quodiano britannico Daily Mail a chi per primo avesse attra­versato la Manica con un aeroplano.
Fu proprio il Blériot XI il velivolo scelto per l'impresa da Chávez. Un velivolo rivestito di tela.

Monoplano con cabina aperta che consentiva ampia visibilità in tutti i settori, era caratterizzato da una struttura di legno a traliccio molto leggera, che era rivestita soltanto in parte con tela di cotone. Anche le due semiali avevano struttura lignea intelata ed erano abbastanza flessibili per poter essere svergolate (per virare) dai tiranti metallici mossi da un'asta a forma di T collegata alla barra di comando tramite una campana (cloche), alla quale erano applicati anche i cavi che comandavano la variazione d'incidenza del piano orizzontale, che era applicato sotto il traliccio di coda, che subito dopo si riuniva nella cernie­ra del timone, costruito in pezzo singo­lo e anch'esso comandato tramite cavi collegati a una barra orizzontale con per­no centrale, che fungeva da pedaliera, posta sul pavimento del posto di pilotaggio.

A Chavez occorreva però una macchina di prestazioni ben superiori a quella ori­ginaria. Blériot aveva già sostituito l'An­zani tricilindrico a W da 25 CV raffredda­to ad aria di origine motociclistica con il nuovo rotativo Gnome da 50 CV. Questo tipo di motore con 7 cilindri disposti a «stella» aveva la caratteristica di girare, insieme all'elica su di esso imbullonata, intorno all'albero bloccato nel telaio di prua dell'aeroplano. La forza centrifuga della rotazione distribuiva uniformemente l'olio lubrificante e raffreddava i cilin­dri. Fu questo il motore prescelto da Chávez, poiché gli avrebbe fornito sufficien­te potenza per superare i passi alpini.

Le cause dell'incidente
Uno studio recente compiuto in Francia, utilizzando la simulazione strutturale computerizzata, su un incidente analogo a quello di Domodossola, ri­guardante il Blériot XI di Léon Delagrange, che si ruppe in volo durante un'esibizione acrobatica, ha dimostrato che furono le eccessive vibrazioni indotte dalla massa rotante del motore a tutta potenza sul traliccio della fusoliera a scardinare gli attacchi alari e provocare il disastro. Se poi un attacco delle semiali dell'aereo di Chávez fosse stato mala­mente riparato e indebolito, l'uso con­tinuo della piena potenza per conqui­stare il primato mondiale di altezza (Issy, Parigi, 8 settembre 1910, 2.652 m, durante il primo volo di collaudo dell'aereo) e per salire due volte al Sempione e qui lottare contro i venti, può essere stato determinante per la tragedia.
Che gli tolse la vita, ma non la vittoria.
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